Nel contesto generale del mondo arabo e medio orientale, indubbiamente la crisi siriana è di fondamentale importanza con i suoi drammatici risvolti umanitari e per le sue implicazioni geo-strategiche e così pure la questione del nucleare iraniano con il suo altalenare fra aperture vere – o supposte tali – è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri che superano il medio oriente e toccano le grandi potenze di un tempo e quelle emergenti. Però quello che sta accadendo negli altri paesi arabi – ad iniziare dall’Egitto, cerniera fra Mashrek e Maghreb – merita di essere segnalato o valutato per meglio comprendere le implicazioni delle due crisi internazionali in atto e sopra citate: Siria e Iran.
Dopo le elezioni del 10 maggio in Algeria che hanno segnato, con la scarsa partecipazione alle urne (42%), la prevalenza del partito FNL del Presidente Bouteflika (220 seggi su 462) e scarsi risultati per l’Alleanza Verde dei musulmani moderati (66 seggi), le elezioni del 23-24 maggio in Egitto hanno polarizzato l’attenzione degli organi di informazione per un insieme di novità, fra cui spicca chiaramente la stanchezza dell’elettorato (il 50% degli egiziani non ha votato) e la pericolosa polarizzazione dei risultati che vedono su circa il 25% ciascuno i due candidati che andranno al ballottaggio il 16-17 giugno: Mohammed Morsi, conservatore e rappresentante dei Fratelli Musulmani (25,3% dei voti pari a oltre cinque milioni e 700mila voti) e Ahmed Shafik, ex primo ministro di Mubarak ed espressione dei militari (24,9% con circa 5 milioni e mezzo di voti). Gli altri tre candidati, Hamdin Sabbahi, nasseriano (quattro milioni e 800mila voti), Aboul Fotouh, moderato (quattro milioni), Amr Moussa, laico (due milioni e mezzo) dovranno decidere su quale dei due vincitori far convergere i loro voti. Se da un lato la disaffezione di una parte sostanziale dell’opinione pubblica, stanca delle manifestazioni, dei disordini, degli scioperi e del generale deterioramento della sicurezza e delle condizioni economiche può far pensare che al ballottaggio non solo i militari, ma anche i moderati e i laici possano preferire un candidato forte, che pescherebbe voti nel bacino di Moussa, Fotouh e Sabbahi, dall’altro coloro che hanno fatto la rivoluzione, di qualunque origine politica siano, ma essenzialmente i giovani, i colpiti dalle repressioni dei militari e della polizia, coloro che il 1 giugno si sono sdegnati per l’esito del processo a Mubarak e ai suoi figli (questi ultimi assolti) spereranno di cambiare le cose e di sconfiggere i militari appoggiando, con i salafiti, i fratelli musulmani di Mohammed Morsi. La vera incognita possono essere i nasseriani, per tradizione laici, sensibili all’appello dei militari che hanno salvato l’onore dell’Egitto e alieni da derive islamiche, ma che pure sono stati i più vocali nel denunciare brogli e irregolarità che gli osservatori stranieri non escludono ma non esagerano.
Sta di fatto che anche dopo il ballottaggio del 16-17 giugno il destino dell’Egitto è di difficile interpretazione fra le due principali ali degli schieramenti e dei poteri forti: i militari, il cui solido accordo con Washington sembra basarsi su una continuità di politica estera, il mantenimento degli accordi di pace con Israele (che però subiranno contraccolpi come quello dell’interruzione dei rifornimenti petroliferi) e un consenso per riforme istituzionali e sociali che rispondano alle basilari aspirazioni di tutti gli egiziani; I Fratelli Musulmani dall’altro, ben radicati nella società, orientati verso un processo graduale di riforme , disposti a mettere in sordina alcuni aspetti del loro islamismo (diritti femminili, libertà religiosa, di stampa e organizzazione politica) e ad accettare una politica economica e finanziaria che non scoraggi gli investimenti e crediti stranieri. Quindi i Fratelli Musulmani sembrano avere maturato una ideologia istituzionale ed economica (quella sociale l’hanno ben sviluppata) fatta di flessibilità, al contrario dei salafiti bloccati su tabù di costume e di religione e privi di una concezione complessiva dello stato e dell’economia.
Le elezioni del 10 maggio in Algeria, che come detto hanno deluso coloro che pronosticavano un espandersi della epidemia islamica fondamentalista, si rivelano significative non solo perché hanno confermato scetticismo e stanchezza verso possibilità di cambiamenti drastici e violenti dopo anni di una sostanziale guerra civile-religiosa, non solo perché hanno confermato una notevole capacità manovriera di un regime pronto – come altri regimi arabi conservatori – a dar fondo alle risorse finanziarie fornite dal petrolio, ma anche perché assicurano un’area di stabilità non trascurabile ad un Maghreb toccato profondamente e diversamente dalla rivoluzione dei gelsomini. La pianta è rimasta, i semi si sono diffusi, ma i fiori non profumano più.
La stabilità – per quanto precaria in alcuni suoi aspetti – sembra essere l’elemento di fatto prevalente a cui la situazione algerina può contribuire su tutta la zona a motivo dell’estensione geografica del paese, capacità militare, sostanziale positività di rapporti con i paesi occidentali, secondo una profezia contundente ma parziale di De Gaulle affermante che “l’Algerie resterà francaise comme la Gaule est restée romaine”. Ed infatti il Marocco, ora guidato dall’islamista Abdelilah Benkirane, sembra assorbire le istante riformatrici di un anno fa con la nuova Costituzione, promulgata il 20 febbraio 2011, e con la “coabitazione” fra “chiesa e palazzo” che il “Capo dei Credenti”, il re, come dichiarato a El Pais dallo stesso Benkirane (21 maggio) ha avviato dopo le elezioni che hanno visto prevalere i Fratelli Musulmani. Forse la stabilità e la ritrovata coesione algerina possono avere influito – le stesse aperture marocchine verso Algeri sulla questione Sahara Occidentale.
Stabile – anche se angustiata da disoccupazione e crisi economica – appare essere la Tunisia, ove la moderazione a tutto campo dei Fratelli Musulmani è forse il terreno su cui le promesse delle Primavera si sono realizzate almeno sul piano istituzionale, creando con i paesi europei del Mediterraneo premesse di collaborazioni e di intese.
Per il Maghreb il punto interrogativo più inquietante, anche se non tale per le sue dimensioni demografiche, è la Libia, che risente indubbiamente degli avvenimenti a est e a ovest, ma che rischia di cadere in un contrasto tribale e in parte religioso non facilmente sanabile dopo gli eccessi e le barbarie a cui il mondo ha assistito durante la cacciata di Gheddafi. In alcuni aspetti la situazione libica può offrire delle similitudini e degli spunti, per un suo accettabile sbocco, con gli sviluppi in Yemen. Qui la transizione del regime di Abdalah Saleh – giunto al potere nel 1978 – che si era macchiato di repressioni sanguinose e colpevole di contrasti in apparenza insanabili, ha ceduto il passo al nuovo presidente Abd Rabbuh Mansour Hadi, che pur proveniente dai ranghi del vecchio regime (e qui sta il sufferimento e l’esempio di modello di transizione) ha saputo asserire una volontà di dialogo con le tribù che hanno volontariamente lasciato le armi ed accettato una transizione negoziata appoggiata dall’Arabia Saudita e dalla comunità internazionale. E’ stata redatta una nuova costituzione e riformate le forse di sicurezza, che nello Yemen come altrove (Egitto, Siria, Algeria, Tunisia) sono il nocciolo duro della repressione dei vecchi regimi autoritari.
Come si diceva, in Libia la situazione è precaria ed influenzabile. Il partito “Giustizia e Costruzione” (Fratelli Musulmani), che sembra avere un consenso maggioritario in vista delle elezioni per il Consiglio Nazionale ( dopo l’ultimo rinvio per i disordini all’aeroporto di Tripoli si parla di luglio), viene descritto dagli osservatori come meno concentrato di mesi fa sul tema dell’introduzione della Sharia e più – sull’esempio egiziano – sui temi dello sviluppo, del controllo delle frontiere, dei flussi migratori e della sicurezza nazionale. Infatti non solo la Libia è un focolaio di instabilità per i suoi contrasti tribali, ma anche e specialmente per un arsenale notevole e ora diffuso di armi che alimenta traffici verso i paesi confinanti al suo, dove gruppi di contrabbandieri, di movimenti separatisti e di trafficanti spesso infiltrati o associati ad Al-Qaida controllano flussi migratori verso le cose libiche in provenienza dall’Africa Nera. Questo insieme di criticità per la Libia potrebbe spingere i Fratelli Musulmani verso una coalizione con la coalizione centrista, moderata e laica facente capo a Jibril (ex ministro di Gheddafi, un po’ come Rabbuh Mansour Hadi nello Yemen) e verso una ripresa stabile dei rapporti con i paesi vicini, Italia inclusa.
La primavera dei gelsomini per un verso sembra aver perso gran parte di quei connotati di speranza di una “alba radiosa” o “dell’incanto” dei diritti umani e della libertà che l’intellighenzia occidentale vagheggiava e che ancora alberga nella visione di molti (fra cui alcuni giornalisti che riferiscono dai paesi arabi) che instaurano frettolose consonanze fra Fratelli Musulmani e il pensiero di Gramsci (vedi gli interventi alla quinta edizione della “Istanbul Seminars” che si è svolta nella capitale turca dal 19 al 23 maggio). Per un altro aspetto ha indubbiamente messo in movimento una serie di mutamenti pacifici e violenti che portano le società arabe ad assumere una configurazione diversa da quegli autoritarismi e dittature che spesso la hanno portata per mancanza di contrappesi istituzionali e di pluralismo verso tensioni e conflitti internazionali, come nel caso del panarabismo di Nasser o del nazionalismo di Saddam Hussein. Come sarà la nuova configurazione è questione che troverà risposta in un lungo periodo, soprattutto perché la crisi siriana è di una portata territoriale vastissima e perché la questione del nucleare iraniano sta portando gli Stati Uniti – o, meglio, molti dei suoi esperti di nota influenza sulla Amministrazione – verso un ripensamento dei propri interessi strategici. Entrambe le crisi influenzeranno in modo significativo sia i vecchi che i nuovi e dinamici regimi arabi.
La situazione in Siria sembra essere una delle più spinose che le Nazioni Unite e la comunità internazionale hanno mai affrontato. Per alcuni versi ricorda la crisi bosniaca, dove i timori di un deciso intervento erano bilanciati da intollerabili atrocità e le forze del cambiamento bloccate dagli interessi interni e internazionali contrari a mutare equilibri assicurati da secoli. Così in Siria le minoranze etniche e religiose sono riluttanti ad abbandonare Assad; le potenze confinanti non possono rimanere insensibili ai massacri della maggioranza musulmana e agli esodi di migliaia di profughi; la Comunità internazionale è spinta dalla sua opinione pubblica a un intervento militare mentre i governi vogliono evitare una nuova esperienza libica, ancora di dubbia governabilità. I paesi vicini temono una disintegrazione: i turchi sanno che la minoranza kurda siriana aspira – vedi dichiarazioni del leader curdo Ismail Hami a “El Mundo” del 31.05.2012. – ad una Siria federale (cioè ad una autonomia curda che imiti quella irachena con conseguenze incalcolabili anche per l’Iran); russi e cinesi, i cui ex-imperi e stati sono un amalgama di minoranze etniche e religiose, non possono ammettere sic et simpliciter di legittimare l’interferenza esterna; i Paesi arabi non possono chiudere gli occhi di fronte al massacro della maggioranza musulmana; l’Irak, il cui primo ministro sembra vedere nemici interni sia a destra che a sinistra, appoggia gli alawiti siriani ed è impotente ad impedire che i suoi oppositori musulmani ed i gruppi di terroristi di Al Qaeda penetrino le fila disordinate ed instabili dei ribelli siriani. Ugualmente preoccupati sono i responsabili libanesi, sia perché alla frontiera siro-libanese gruppi delle loro minoranze (si veda Tripoli e la Valle della Bekaa) hanno collegamenti tribali e militari in Siria, sia perché gli Hezbollah oscillano fra la vecchia alleanza con Assad e l’Iran e la tentazione di sopravvivenza politica offerta dalle monarchie del Golfo nel caso che l’Iran venga privato del suo più importante alleato strategico nel mondo islamico.
A completare il quadro di difficoltà entro cui si sta muovendo l’inviato dell’ONU Kofi Annan, vi è il problema delle armi chimiche e batteriologiche che la Siria degli Assad ha accumulato nel tempo e montato su proiettili e missili SS-21 forniti da potenze alleate. Infatti – secondo quanto riferiscono anche autorevoli fonti d’informazione (Wall Street Journal di marzo, a firma di Solomon e Barnes) – la Siria, che non ha firmato la Convenzione del 1992 sulle armi chimiche (insieme a Israele, Egitto, Nord Korea e Myanmar) possiede diversi siti in cui tali armi sono concentrate e che – come dichiarato al Congresso a mezzo dell’Ammiraglio William McRaven – potrebbero cadere in mano degli Hezbollah o di terroristi di Al Qaeda. Di conseguenza sarebbe stata organizzata un’operazione di addestramento militare con più di una decina di migliaia di militari provenienti da 17 paesi (fra cui USA, Turchia e Giordania) e concentrata alla frontiera siro-giordana e pronta per intervenire in caso che la situazione sfuggisse ad ogni controllo.
Il compito dell’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite pertanto, non è arduo, è quasi impossibile. Come da lui ribadito nei suoi colloqui ad Amman il 30 e 31 maggio con il Re Abdalah e con vari esponenti giordani, il suo piano di pace (liberazione dei prigionieri politici, libero accesso per gli aiuti umanitari, ritiro dalle città dei mezzi pesanti ed inizio di una de-escalation) è tuttavia il solo realistico. Assad da parte sua, pur fronteggiando una opposizione divisa, sembra fuori dalla realtà con le sue accuse di complotti stranieri, anche se – a parere di qualche scettico osservatore esterno – di interferenze esterne la Siria non manca affatto. Comunque sia, la Lega Araba sarebbe orientata – secondo fonti diplomatiche dopo la riunione a Doha del 2 giugno – a chiedere che il piano Annan sia parte di un preciso riferimento al Capitolo VI della Carta.
La crisi in atto in Siria porta inevitabilmente l’attenzione sulla posizione dell’Iran e degli Stati Uniti (ergo Israele è nello sfondo come un convitato che di pietra non è) che si gioca attorno alla questione del nucleare iraniano. Il quadro del problema merita di essere scomposto per coglierne le novità e gli ostacoli in evoluzione.
La riunione dei P5+1 che si è svolta il 23 maggio a Baghdad si è conclusa con risultati deludenti che però saranno ripresi il 18 e 19 giugno a Mosca. Da parte sua l’AIEA nel suo ultimo rapporto ha confermato che l’Iran, in violazione alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, ha proseguito nelle attività di arricchimento (livello vicino al 27%) ed ha avviato la costruzione di due nuove centrali. I negoziatori iraniani hanno ricevuto a Baghdad il piano della Baronessa Ashton concordato dal gruppo di contatto, nel quale si chiede l’ingresso in tutto l’Iran degli ispettori ed il trasferimento all’estero di tutto l’uranio arricchito oltre il 20% mentre, di contro, si accetta che Tehran mantenga le centrifughe per l’arricchimento fino al 5% e si prospetta un alleggerimento delle sanzioni prima che entrino in vigore. L’impressione di alcuni osservatori (v. Le Monde del 25 maggio) è che i negoziatori iraniani, pur ribadendo le loro solite posizioni (diritto al nucleare pacifico, smantellamento dell’arsenale israeliano) abbiano considerato l’offerta come”una via percorribile”. A rafforzare una certa quale positività, la stampa riporta la dichiarazione di un membro della delegazione USA: “pensiamo che vi sia l’inizio di un negoziato”.
Tutto questo dimostra come americani (a motivo delle elezioni), europei (per la crisi economica e le ripercussioni energetiche che accentuerebbero la crisi), israeliani (per rispetto alle esigenze USA e per gli avvertimenti sulla pericolosità di un’azione militare) e gli stessi iraniani (per motivi che espliciteremo) siano tutto sommato inclini a non superare la soglia di pericolo pur mantenendo le posizioni “obbligate”. L’Iran vorrebbe perseguire una politica di “fare gli affari” senza parlare di diritti umani, argomento pericoloso per la stabilità del regime che fronteggia una società di certo molto più evoluta di altre nella regione, che ha istituzioni elettive anche se coartate da interessi corporativi (militari, religiosi ed economici). In breve Tehran vorrebbe essere considerata come la Cina. L’Occidente, invece, non può abbandonare la politica dei diritti umani – che è il suo “soft power” – e non può trascurare tre alleati fondamentali che vedono in un Iran nucleare una terribile minaccia: Israele sempre più ossessionato dai suoi incubi e prigioniero dei suoi slogan; l’Arabia Saudita e i paesi del CCG allargato che ormai hanno come solo obiettivo di rompere l’accerchiamento sciita e di conciliare la “primavera araba” sostenendo i movimenti politici dei musulmani sunniti; la Turchia, fondamentale pedina strategica che sta scoprendo di avere non più “zero enemy” alle frontiere, ma “one enemy for each frontier ” (come ha detto un arguto diplomatico) e che in un Iran nucleare avrebbe una formidabile minaccia strategica per il soft power del suo “modello turco”.
La conclusione più “ragionevole” sarebbe che il negoziato andasse avanti, fra minacce e gesti distensivi, senza che la tensione latente faccia commettere errori. Pero’ dice Montale: “la storia non è prodotta da chi la pensa e neppure da chi l’ignora. La storia non si fa strada, si ostina, detesta il poco a poco, non procede né recede, si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario”.
Nel mentre non si possono prevedere gli imprevisti, si possono evidenziare due considerazioni che mostrano la preferenza dei due principali protagonisti per i tempi lunghi. La guerra cibernetica di Stati Uniti e Israele (che ovviamente smentiscono, ma che l’International Herald Tribune conferma il 30 maggio) ha prodotto con il virus Stuxnet danni notevoli alle centrifughe iraniane, mentre il virus Flame ha penetrato i computer di alte personalità iraniane. Gli iraniani hanno incassato e la guida Khamenei si è limitato a dichiarare che “l’Occidente è indebolito ed in fase di essere distrutto”, di certo esagerando, ma ben conscio della portata del “riposizionamento americano” che ha lasciato l’Irak e si prepara a lasciare l’Afghanistan, indebolendo l’accerchiamento militare ai danni di Teheran. Quindi il tempo che passa offre prospettive nuove. Su un altro versante, l’America “pensante”, quella stessa che ha fatto dire al Generale Petreus che gli interessi degli Stati Uniti non sono quelli di Israele, comincia a chiedersi se il “riposizionamento” non comporti anche un “ripensamento” dei rapporti USA-Iran, così come avvenne con la Cina per opera di Nixon. L’ex Sottosegretario di Stato di Clinton. Thomas R. Pickering e l’ex Presidente dell’Associazione per le Nazioni Unite, William H. Luers auspicano (Le Figaro del 30 maggio) discussioni “più ampie” con l’Iran che investano, oltre al nucleare, gli argomenti della stabilità regionale. Jacques Hymans (Foreign Affairs di maggio-giugno 2012) sdrammatizza la pericolosità nucleare iraniana. Nel dibattito sulla stessa rivista di luglio-agosto 2010, importanti analisti (Ray Takeyh, James Lindsay, Barry Rubin e Barry Posen) hanno discusso la tesi di Takeyh favorevole a non dismettere le eventuali aperture di Tehran (ricordiamo che l’attacco alle Torri Gemelle suscitò un’impressionante solidarietà dell’opinione pubblica iraniana per l’America che la cecita’ di Bush non prese in considerazione). Mohsen M. Milani (Foreign Affairs luglio-agosto 2009) ha messo in risalto che il principale obiettivo della politica estera iraniana è la sopravvivenza del regime e la sua influenza nella regione.
Si tratta di spunti che risalgono indietro nel tempo e che segnano come gli esperti americani -che prima o poi finiscono per gestire la politica di Washington – stiano considerando come uscire da una situazione conflittuale e che ora sta divenendo non molto compatibile con il “diengagementt” voluto dall’Amministrazione Obama. In breve, sciogliere un altro dei nodi gordiani che spesso l’America ha dovuto affrontare e tagliare: come l’avvicinamento al Regno Unito nonostante la guerra del 1808-1812 che consentì agli inglesi di incendiare – il 24-25 agosto del 1812 -antichi simboli di Torri Gemelle- la Casa Bianca e il Campidoglio; l’ intervento del 1917 in Europa nonostante il farewell di Washington; la distensione con l’URSS, nonostante la dottrina Truman, ed il viaggio di Nixon a Pechino nonostante il Vietnam e venti anni di contrasto con la Cina di Mao. Il tutto però ora è fermo in vista delle elezioni americane di novembre.