A un anno di distanza dall’Inauguration Day, ciò che resta ineccepibilmente è che il presidente “Donald Trump è stato un fenomeno politico”, dice in una conversazione con Formiche.net Pialuisa Bianco, giornalista e saggista, direttrice di Longitude (prestigiosa rivista italiana di geopolitica).

 

Che cosa è cambiato dalla sua vittoria? “Dobbiamo ricostruire rapidamente la sua vicenda per comprenderlo. Partendo da un fatto: è stato sottovalutato, e molta della sottovalutazione, sia tra i Democratici che tra i Repubblicani (entrambi avversari di Trump), è legata all’aver considerato l’evanescenza del personaggio, i tratti caricaturali, la scarsa capacità dialettica, e non aver compreso ciò che l’emersione del personaggio rappresentava nel sistema politico americano”.  Trump è stata una spia della crisi del sistema politico americano: la crisi dei repubblicani, ma anche dei democratici. “Stava capitando – continua Bianco – un fenomeno analogo a quello successo tra i paesi europei: si era rotto il sistema di alternanza, perché i due partiti americani (i due blocchi altrove) si sono omologati nelle questioni di fondo”. Ma, aggiunge l’analista, che ha diretto anche il Forum strategico della Farnesina, oltre a questa omologazione politica, “c’è la crisi degli anni 2000: disagio economico, declino del sogno americano, l’idea che all’interno della classe media si può solo crescere che stava venendo meno. E questo ha alterato il rapporto con i due partiti tradizionali. Dobbiamo considerare che l’elettore americano ha sempre covato un tacito assenso nei confronti delle forze politiche: semplificando, si pensava che ‘noi siamo americani, chiunque vinca andremo avanti e lo faremo in meglio’”.

Durante la campagna elettorale è uscita anche allo scoperto la crisi del partito repubblicano acuta, con la distanza tra l’anima classica e quella più dirompente e anti-establishment: che ne resta adesso di questo? “Teoricamente si tratta di un aspetto che avrebbe potuto essere la carta vincente post elettorale, l’idea che il personaggio eccentrico potesse essere inglobato e addomesticato all’interno della forza dell’amministrazione. Ma abbiamo visto che la tendenza di Trump è rompere gli schemi anche all’interno del sistema di governo”. E tra i democratici? Come si specchia la vittoria di Trump tra i dem? “Hillary Clinton, che pure era favorita, incarnava l’espressione dell’establishment, ma invece di insistere sui temi squisitamente politici, si è rintanata nell’elemento più ideologico sviluppato dai dem in questi anni: intendo la difesa delle minoranze, l’emancipazione femminile e temi collegati. Chiaramente parliamo di fattori importanti, ma distanti dal cuore politico americano. E questo ha ingigantito la portato di Trump, che parlava di cose concrete, contro una Hillary che sembrava toccare più questioni ideologico/culturale”. Un fatto importante, che ha spostato, poi, l’azione dell’opposizione: ora ci troviamo davanti a quello che Bianco definisce uno scenario di “guerra civile metaforica”, la polarizzazione politica americana.

E uscendo dagli Stati Uniti? L’impatto di Trump sul mondo, diciamo, com’è stato? “Potremmo dire che Trump ha dato un segnale di cambiamento a parole: l’immigrazione con il Muro e i Dreamers; l’exploit punitivo in Siria e la superbomba in Afghanistan, ma poi si ritrae dallo scenario mediorientale; anche la prima versa crisi strategica con Corea del Nord è stata accompagnata da una retorica infuocata ma poi, nei fatti, sulla vicenda centrale, il dialogo intracoreano, sta a guardare”. E con la Cina? “Siamo sulla stessa situazione: aveva proposto una specie di contrasto a tutto campo, salvo poi andare a Pechino e farsi accogliere col tappeto rosso da Xi Jinping, e allentare la corda: c’è da ricordare che uno degli elementi più incerti della politica del suo predecessore è stato il riavvicinamento tra Russia e Cina, e su questo staremo a vedere”. Prendiamo ancora un esempio, spiega Bianco: il caso Gerusalemme. “Non è la presa di posizione il mio dubbio, giacché quello era già scritto e non è una scelta così inusuale per un presidente americano, ma occorre capire se un’uscita del genere è frutto di un piano strategico. Se lo fosse Trump potrebbe aver discusso questa posizione su Gerusalemme con Israele, e allora c’è da vedere in cambio di cosa. Per esempio il governo Netayahu sta pensando ad aprire sulle questioni palestinesi? Se invece è una mossa di rottura, ma lanciata nel vuoto, allora è destinata a restare appesa e tutto si esaurirà nell’arco di poco tempo”.

Trump ha creato distanze con i suoi alleati? Mi riferisco in particolare all’Europa. “In molti sostengono che Trump stia cercando di rompere i rapporti con l’Europa, ma per me non è così. Già Barack Obama non aveva amore nei confronti degli europei, a dire il vero, però Bruxelles in quel periodo si era aggrappato all’America, cercando di coprire così le proprie insufficienze (per esempio il disimpegno in Medio Oriente col leading from behind è stata una faccenda che è piaciuta in diverse capitali europee che laggiù erano troppo coinvolte)”. Con l’arrivo di Trump i paesi europei ritengono che differenziandosi a parole dalla presidenza americana possono creare un proprio standing, spiega nella sua analisi Bianco: “Ma anche in questo caso, ci sono solo distanze verbali, senza nessuna posizione strategica avviata, cioè mancano le azioni politiche per creare questa eventuale distanza: prendiamo il caso dell’accordo sul Clima di Parigi, Trump ha mosso indietro Washington (che in realtà non aveva definitivamente ratificato l’accordo), gli europei hanno risposto con parole anche dure, ma in realtà è mancata una strategia concreta, e siamo fermi a posizioni di principio”.

E il claim America First: quanto è vero questo neo-protezionismo trumpiano di cui ogni tanto si parla? “Per un verso è uno slogan che appare appagante per l’americano medio di cui parlavamo prima, l’elettore di Trump, ma in proiezione esterna resta qualcosa più buono per Twitter, che per una posizione politica strategica. Se America First però vuol dire la politica fiscale attualmente inaugurata, allora bene (per gli americani)”. E su questo c’è da ricordare che Trump ha detto che la potenza americana si basa sulla sua forza economica, senza la quale viene meno la forza globale: ultimo richiamo in questo senso, la strategia per la sicurezza nazionale, che è più che altro una sicurezza economica.

In definitiva, ci dice Bianco, a un anno di distanza – Trump ha inaugurato la sua amministrazione il 20 gennaio 2017 – “siamo al punto di partenza rispetto a quando è venuto fuori questo personaggio, che ha creato sconquasso ovunque, ma soprattutto all’interno dell’America; e sul piano internazionale c’è mancanza di consenso basata su questioni ideologiche. Però la chiave di questa presidenza è l’imprevedibilità. Non è detto dunque che a dispetto della vacuità strategica vengano fuori risultati buoni, come quelli attuali sull’economia, effetto di eterogenesi dei fini”.

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