Nell’ottobre del 2012, a seguito di un’indagine durata un anno circa, il Comitato permanente sull’intelligence della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti era giunto alla conclusione che le aziende cinesi, Huawei Technologies e ZTE Inc., rappresentassero una minaccia alla sicurezza nazionale “a causa dei loro tentativi di ottenere informazioni sensibili dalle aziende americane e della loro lealtà nei confronti del governo cinese”.

Alla Casa Bianca c’era Barack Obama. Il presidente democratico tornò sull’argomento nel 2014, quando – poco prima di incontrare Xi Jinping – difese le attività della National Security Agency volte a tenere sotto controllo Huawei, rendendo così evidente come il sentimento di sospetto nei confronti dell’azienda fondata a Shenzhen nel 1987 da Ren Zhengfei, ex vicedirettore del genio militare cinese, fosse completamente bipartisan. La complicata relazione tra Stati Uniti e Cina, con Huawei spesso a rappresentare l’acme di questa diatriba, ha dunque una storia lunga. Quanto meno è precedente all’arrivo alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, all’ondata “protezionista” e basata sullo slogan “America First”. Di sicuro Donald Trump, fin dalla sua campagna elettorale, ha eletto la Cina a “problema numero uno” dell’economia e del benessere della popolazione statunitense.

PERCHÉ TRUMP VUOLE METTERE LA CINA ALL’ANGOLO

Nel suo afflato protezionista, risiede la certezza di Trump: ad essersi avvantaggiata della globalizzazione è stata soprattutto Pechino; da qui i continui rimandi alla Cina – è ormai celebre il medley di tutte le volte che Trump ha citato la parola “China” in campagna elettorale – e le feroci critiche alle amministrazioni passate, responsabili di aver tollerato lo strapotere cinese, attuato, secondo l’attuale presidente statunitense, attraverso alcune traiettorie ben precise: sussidi di stato, fluttuazione dello yuan e furto di proprietà intellettuale.

Anche la questione legata ai rapporti commerciali tra Washington e Pechino – a dire il vero – ha una storia antica, benché sia indubbio che abbia avuto una clamorosa accelerazione tra la fine del 2018 e gran parte del 2019. Barack Obama aveva privilegiato una strategia (Pivot to Asia) che puntava per lo più al “contenimento” della potenza cinese: esemplificativo in questo senso è stato il TPP (Trans Pacific Partnership) un accordo di libero commercio con gran parte dei paesi asiatici che escludeva proprio la Cina. Un palliativo, in realtà, perché la Cina ha sempre avuto l’abilità di sgusciare tra i “confini” posti da Obama, attraverso accordi commerciali bilaterali.

Trump – invece – oltre ad affossare il TPP e creare malumori tra gli alleati asiatici, ha deciso di andare al cuore del problema; la sua iniziativa di colpire con dazi le merci cinesi, risponde a un’esigenza della bilancia commerciale americana: gli USA acquistano dalla Cina molto più di quanto non vendano a Pechino. Il tema è stato al centro della campagna elettorale del tycoon americano, e più volte sottolineato anche una volta conquistata la Casa Bianca. La realtà presentatasi di fronte all’amministrazione americana a inizio mandato, nel novembre del 2016, era impietosa: il deficit commerciale con la Cina era aumentato dell’8,1 percento, raggiungendo quota 375,2 miliardi di dollari. Dopo circa un anno vissuto tra negoziati e tentativi di collaborazione a livello internazionale (come nel caso della Corea del Nord e ripetuti complimenti da parte di Trump nei confronti del suo “amico” Xi Jinping), nel luglio del 2018 Trump si è deciso per l’avvio dei primi dazi anti cinesi, colpendo prodotti per un valore di circa 60 miliardi.

Ne seguì un’immediata reazione della Cina, ma Trump ammonì Pechino: “Abbiamo altri 200 miliardi di beni da colpire e se non basta altri 300 miliardi”. Detto, fatto: nel dicembre 2018 Trump annuncia nuovi dazi su 200 miliardi di prodotti cinesi. Poi arriva una proroga di tre mesi, durante i quali si sono succeduti undici round negoziali fino alla rottura totale e l’annuncio da parte di Washington – a metà di maggio 2019 – del via libera a nuove sanzioni, al 25 percento, su 300 miliardi di prodotti cinesi. Altra risposta cinese: contro-dazi su 60 miliardi di prodotti americani. Ma nel frattempo era già deflagrata la questione Huawei.

IL COLOSSO DI SHENZHEN: CASUS BELLI

Durante questo confronto a distanza di natura commerciale e nonostante gli avvisi da parte della Cina – “in uno scontro commerciale non ci sono vincitori” – è infatti ben presto emerso chiaramente quanto sottende da sempre a questo botta e risposta sulle tariffe. A fine 2018 a Vancouver, su richiesta degli Stati Uniti, era stata arrestata Meng Wanzhou, responsabile finanziaria della Huawei, nonché figlia del fondatore Ren Zhengfei, con l’accusa di aver aggirato le sanzioni contro l’Iran. Proprio in occasione del suo arresto, dopo molto tempo, era tornato a parlare, con un’intervista alla BBC, il fondatore di Huawei.

Nel frattempo la Cina arrestava due canadesi, formalmente accusati di spionaggio nel maggio 2019, mentre in Polonia finiva in carcere un cinese, dipendente dell’azienda hi-tech cinese (e subito licenziato), accusato di essere una spia. In questo clima, lo scorso 20 maggio del 2019, prima Trump si è detto pronto a firmare un decreto esecutivo con il quale bloccare le forniture a circa 700 aziende straniere considerate rischiose per la sicurezza nazionale, tra le quali Huawei. Poi la società cinese è stata inserita in una blacklist (insieme ad altre 70 compagnie). Questo atto ha un obiettivo chiaro: fare pagare a Huawei e alla Cina l’unico punto debole della filiera hi-tech cinese, ovvero i semiconduttori. Qualcomm, ad esempio, è fornitore di Huawei (per il 22 percento degli smartphone, secondo il suo ultimo bilancio).

Ma per Huawei la novità più rischiosa – e prevista, a quanto abbiamo appreso da successive dichiarazioni provenienti dal management dell’azienda – sarebbe arrivata subito dopo: in virtù dell’inserimento nella lista nera, Google ha infatti annunciato di revocare la licenza per il sistema operativo Android sugli smartphone Huawei, proprio poco dopo la conquista da parte dell’azienda cinese del secondo posto nella vendita mondiale di smartphone: i dati relativi al primo trimestre 2019 vedono la Huawei sul secondo gradino del podio con il 15 percento del market share, dopo Samsung (al 22,8) ma prima di Apple (al 13,5).

Dopo la doppia mossa di Trump e Google, sono emerse due considerazioni: la prima è che lo scontro sui dazi è un corollario di qualcosa di più grande. La seconda è che la Big Thing di tutta la vicenda è la corsa al 5G.

PECHINO GUADAGNA POSIZIONI NELLA CORSA AL 5G

Le connessioni 5G cambieranno in modo drastico il nostro modo di utilizzare lo smartphone, ci proietteranno nel cosiddetto “Internet delle Cose” e consentiranno un vantaggio competitivo clamoroso a chi per primo commercializzerà la rete iper-veloce. E che la corsa al 5G sia particolarmente importante, è confermato dai numeri degli investimenti decisi da Pechino. Gli operatori cinesi hanno pianificato circa 400 miliardi di investimenti relativi al 5G nel periodo compreso tra il 2015 e il 2020. Gli obiettivi di Pechino sul 5G sono intrinsecamente collegati all’Intelligenza Artificiale, perché le nuove reti renderanno possibile una velocità di calcolo impensabile fino a poco tempo, permettendo agli algoritmi di operare con minore latenza rispetto al recente passato: un esempio su tutti saranno le auto a guida autonoma.

La Cina punta a recuperare un gap con gli USA sull’Intelligenza Artificiale entro il 2020, per diventare leader mondiale entro il 2030. E sul 5G la Cina è in vantaggio sugli USA. Pechino può contare già su 350.000 siti di celle 5G, dieci volte il totale degli Stati Uniti, secondo un’analisi di Deloitte. Si prevede inoltre che la Cina sarà il più grande mercato 5G al mondo già nel 2025 con 430 milioni di abbonati: il doppio della cifra stimata degli Stati Uniti. Nel 13° piano quinquennale (2016-2020) e in “Made in China 2025” – il progetto voluto dal presidente cinese Xi Jinping che punta a far diventare la Cina leader mondiale nell’esportazione di prodotti tecnologici e innovativi, trasformando così la “fabbrica del mondo” in modo decisivo ed epocale – il 5G è probabilmente l’obiettivo più importante.

Nel marzo del 2019, a confermare l’impegno di tutto il governo cinese, il tema è stato tra quelli considerati “centrali” nell’annuale rapporto di lavoro del governo consegnato dal premier Li Keqiang durante le riunioni legislative.

L’INTERNET DEL FUTURO SARÀ SUPER VELOCE

Cosa significherà il 5G: velocità di connessione più rapida, la possibilità di connettere più dispositivi, latenza azzerata. Gli esperti ritengono che il 5G avrà una velocità massima di download fino a 20 gigabit al secondo, abbastanza veloce da scaricare un film in HD a lunghezza intera in pochi secondi. Il 5G sarà caratterizzato da una maggiore connettività, il che significa tempi di attesa inferiori nell’invio di dati e più dispositivi in grado di connettersi alla rete contemporaneamente.

Ma fosse solo questo, sembrerebbe qualcosa destinato semplicemente a farci utilizzare in modo più rapido le applicazioni a cui ormai il nostro stile di vita è abituato. Naturalmente c’è molto di più, perché 5G significa anche smart city, veicoli a guida autonoma, robotica a distanza, riconoscimento facciale e nuove tecniche securitarie, droni utilizzati nell’agricoltura, super computer quantici. Sarà una vera e propria rivoluzione, perché ad usufruirne saranno per lo più l’Intelligenza Artificiale e la manifattura, portando così il 5G a divenire un elemento importante per il futuro del PIL dei Paesi. Secondo un report pubblicato nel 2017 da Accenture “il primo paese che distribuirà e commercializzerà le reti mobili ultraveloci 5G avrà un enorme vantaggio economico: 500 miliardi di PIL” e milioni di posti di lavoro (tre milioni è la stima per gli USA, ad esempio). In tutto questo, naturalmente, la Cina non manca di programmazione: “il suo piano quinquennale mira a un ampio lancio commerciale di 5G entro il 2020 e tutti i principali fornitori di servizi wireless (come Huawei e ZTE) hanno condotto numerosi studi 5G. Quello cinese sarà, forse, il più grande per il 5G entro il 2022”. E non c’è solo Huawei: ci sono anche Xiaomi e ZTE (che pure ha avuto molti problemi con gli USA analoghi a quelli di Huawei, con l’aggravante di essere un’azienda di Stato).

Le società cinesi – inoltre – hanno conquistato terreno anche sui mercati esteri: Huawei ha già inviato componenti per oltre 10 mila stazioni in oltre 60 paesi. ZTE ha effettuato una partnership con l’operatore olandese KPN per il collaudo della rete 5G. Prezzi competitivi e una affidabilità che – per quanto riguarda Huawei – i consumatori hanno già provato e toccato con mano per quanto riguarda gli smartphone (considerati migliori di Samsung ed Apple da molti, grazie alla durata della batteria) portando l’azienda cinese al secondo posto tra i migliori produttori mondiali, prima di Apple e ormai di poco dopo Samsung.

LA STRATEGIA DI TRUMP NON CONVINCE L’EUROPA

Gli Stati Uniti nella loro opera di contrasto a Huawei, non si sono occupati solo del proprio mercato; precedentemente alle decisioni di Trump e Google, l’amministrazione USA aveva espresso un pressing a tutto campo presso i propri alleati in giro per il mondo chiedendo uno stop alle attività di Huawei. Funzionari del governo USA hanno incontrato controparti e dirigenti delle aziende di telecomunicazioni dei paesi considerati “amici” nei quali i sistemi per le telecomunicazioni di Huawei sono già utilizzati, come in Giappone, Germania e Italia; l’obiettivo di Washington è di avvisare gli alleati del rischio per la sicurezza informatica, sottintendo la necessità di un blocco dell’azienda cinese. Giappone, Germania e Italia sono i paesi i quali gli Usa presta più attenzione, in quanto Stati dove gli Usa hanno basi militari e temono una ingerenza cinese sulle proprie comunicazioni.

La strategia di Trump ha ottenuto qualche risultato, ma non in Europa dove i paesi sono dubbiosi circa le richieste americane: nell’agosto del 2019 il governo australiano ha escluso Huawei dalla fornitura di apparecchiature per la futura rete mobile 5G del paese, con la motivazione di proteggere la propria sicurezza nazionale. Analoga decisione è stata presa qualche giorno dopo dalla Nuova Zelanda. E proprio sul 5G – a seguito della blacklist trumpiana e della decisione di Google – è intervenuto il capo di Huawei, Ren Zhengfei. L’anziano fondatore ha ricordato la lunga strada compiuta dalla propria azienda che ha attraversato le recenti fasi cinesi, dall’apertura e le riforme di Deng, fino alla “Nuova Era” di Xi Jinping, diventando l’azienda di punta della nuova postura internazionale di Pechino.

Dopo aver sottolineato il vantaggio competitivo della sua società rispetto ai competitor occidentali sul tema del 5G (misurato in un paio d’anni), Ren ha specificato che “abbiamo sacrificato noi stessi e le nostre famiglie per il nostro ideale, per stare in cima al mondo. Per raggiungere questo ideale, prima o poi ci sarà conflitto con gli Stati Uniti”.

UNA PARTITA ANCORA LUNGA

Le risposte della Huawei di fronte a quello che Pechino vive come un vero e proprio attacco da parte degli USA, vanno in diverse direzioni: da un lato l’azienda ha accelerato le procedure per la creazione di un proprio sistema operativo, capace di arginare il ban trumpiano, dall’altro, il 29 maggio scorso Huawei ha fatto causa al governo americano, sollevando il tema dell’incostituzionalità del divieto imposto alle società USA di acquistare le sue apparecchiature di rete. La partita tra Stati Uniti e Cina, che si gioca su tanti campi, durerà a lungo, nonostante i colloqui tra le due parti siano ancora in corso. Né gli USA né la Cina, giunti a questo punto, sembrano poter rinunciare a qualcosa delle proprie rivendicazioni, nonostante le lamentele delle aziende americane (l’ultima ad aver espresso dubbi sulle azioni di Trump è stata Microsoft) e nonostante la necessità cinese di continuare a garantire una crescita – messa a rischio da questo confronto commerciale – in grado di mantenere la situazione sociale interna sotto controllo.

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