di Pietro Fiocchi
“Integrazione e sviluppo sostenibile nella regione del Mar Nero” sarà il primo congresso internazionale nel suo genere. L’appuntamento è a breve, dal 4 al 6 dicembre presso il Marina Cape Vacation Complex di Burgas, nota località turistica della costa bulgara. Nel presentare l’evento (www.congress.blacksea-online.org) si fa notare che, a sentire gli esperti, l’area in questione è una delle più promettenti al mondo per vari motivi, a cominciare dalle risorse naturali. Si rimarca che per di là passano e si incrociano i principali oleodotti e gasdotti, quelli già in funzione e gli altri che saranno costruiti: prospettive dunque di crescita del potenziale economico e degli investimenti. Certo non è solo ora che si dà tanta attenzione a questo mare: già millenni addietro, quando lo chiamavano Ponto Eusino, era al centro di dibattiti e accordi internazionali. Magari non si parlava di gas e petrolio.
A promuovere il consesso è l’omonima organizzazione, i cui protagonisti sono Armenia, Azerbaijan, Romania, Moldavia, Bulgaria, Grecia, Turchia, Georgia, Russia e Ucraina. Ognuno di questi Paesi ha delle caratteristiche notevoli, oltre a conflitti più o meno gravi in corso. Alcuni di loro però potrebbero essere osservati come una sorta di epicentro dal quale hanno origine dinamiche a lungo e ampio raggio. Tra questi ci sono senz’altro la Russia e la Turchia.
Un’occhiata a quest’ultima. A metà settembre scorso, Istanbul ha ospitato un summit riservato ai leader degli Stati turcofoni ovvero i numeri uno dell’Asia Centrale, quest’altra preziosa e promettente regione del mondo. Un vertice che è servito a dare vita ad un Consiglio per la cooperazione dei Paesi turcofoni: fucina di proposte concrete per migliorare i rapporti e gli affari tra genti che hanno storia e cultura comuni. Luogo di incontro delle prossime sessioni, sarà là dove il Consiglio è stato creato: Istanbul. L’idea circolava nei salotti d’Eurasia dal 2006, concepita e proposta dal presidente kazako Nursultan Nazarbaev. Il capo di Stato turco Abdullah Gül, in quella occasione, facendo gli onori di casa agli ospiti, aveva detto che “il lavoro iniziato al forum sarà un’eredità per le generazioni future”. Il riferimento era a quelle che discendono dai popoli turchi, che secondo alcune organizzazioni politiche anatoliche, sono stati divisi e sottomessi dall’imperialismo russo (nel Caucaso e nell’Asia Centrale), quello degli zar per primo, poi dei leader sovietici e dei protagonisti di oggi del Cremlino: Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev.
Quello di un risorgimento dei turchi, il turanismo, non è un mito contemplato solo da certi partiti nazionalisti: c’è il Milliyetçi Hareket Partisi (www.mhp.org.tr), al terzo posto nel Parlamento di Ankara, o l’Ulusal Parti (www.ulusalparti.org.tr), di recente costituzione, che non ha seggi, ma conta di conquistarne alle prossime elezioni, nella primavera-estate del 2011. Un’unione più o meno serrata e una rinascita dei popoli turchi è un’idea che promuove anche il partito al governo dal 2002, il filo-islamico Adalet ve Kalkınma Partisi (www.akparti.org.tr), il cui leader è il premier Recep Tayyip Erdoğan: lui e il presidente Gül lo hanno fondato insieme nel 2001.
Ora, direttrice panturchista a parte, possiamo seguire i passi di Ankara anche in un altro contesto dove è protagonista: il Developing 8 o D-8 (www.developing8.org). Nata nel 1997, ancora una volta ad Istanbul, dove ha tuttora sede, si tratta di un’alleanza finalizzata allo sviluppo socio-economico dei Paesi membri, alla cooperazione tra economie emergenti che cercano di farsi spazio nei mercati mondiali. Oltre alla Turchia, sono soci del club Iran, Pakistan, Nigeria, Egitto, Bangladesh, Indonesia e Malaysia. Un particolare: sono tutti Stati a maggioranza musulmana e certo non è un caso. Alcuni di loro li ritroviamo in altri specifici consessi internazionali.
A dare una mano alle ambizioni neo-ottomane, così qualcuno le chiama, della Turchia di Erdoğan, ci sarebbe, in molti lo credono, un personaggio e il suo movimento: si tratta di Fethullah Gülen (www.fgulen.com), da diversi anni residente negli Stati Uniti. Lui e quelli che contribuiscono al suo disegno, sarebbero impegnati in un’opera di islamizzazione pacifica, soprattutto attraverso l’apertura di scuole ad hoc. Ce ne sono in tutto il mondo.
Ora veniamo alla Russia. Mosca ha un sogno: l’Eurasia, quella che è stata riproposta dal filosofo Aleksandr Dugin (www.evrazia.org), ma che ha oltre un secolo di vita ideologica. Dalla dissoluzione dell’Unione sovietica, per ragioni di strategia energetica e militare, il Cremlino è stato tra i principali promotori di una serie di istituzioni, che mirano a questo obiettivo. C’è la Comunità degli Stati indipendenti (www.cis.minsk.by), l’Organizzazione di Shangai per la cooperazione (www.sectsco.org), l’Organizzazione del trattato per la sicurezza collettiva (www.dkg.gov.ru), la Comunità economica eurasiatica (www.evrazes.com), l’Unione doganale di Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Queste le principali realtà operative nello spazio post-sovietico e dintorni. Per Mosca strumenti di influenza verso l’interno, nelle aree del Mar Nero, Mar Caspio e Asia Centrale, e verso l’esterno, per evitare il più possibile intrusioni che mirano a scardinare un sistema consono agli interessi del Cremlino. Terreno di battaglia preferito è proprio l’Asia Centrale: Russia, Cina e Stati Uniti la contendono. Il Kirghizistan, per esempio, è l’emblema della difficile convivenza tra poteri contrapposti. C’è chi giudica un paradosso la presenza di una base militare russa, a Kant, e di una nordamericana, a Manas, fondamentale per le operazioni in Afghanistan: entrambe non lontane dalla capitale Bishkek. Tanto che si è sospettato un legame tra il colpo di Stato dello scorso aprile e le vicende delle basi. Ogni tanto ci sono notizie che sembrano però smentire le tensioni nella regione, almeno apparentemente. Qualche settimana fa, funzionari dell’amministrazione presidenziale kirghiza, hanno detto di avere in agenda la creazione di una joint venture con la Russia, per fornire carburante alla base statunitense: un modo per rompere con i vecchi sistemi corrotti e creare una nuova area di cooperazione multilaterale. L’ipotesi a Washington è piaciuta, ora spetta al Congresso decidere per passare alla fase operativa. Bisognerà poi vedere, dopo le elezioni legislative di ottobre, come si porrà, dopo i primi assestamenti, il nuovo esecutivo di Bishkek rispetto alle ambizioni strategiche e militari di Cremlino e Casa Bianca.
Considerate a grandi linee alcune dinamiche in corso, ci si può aspettare che prima o poi, convergendo nella regione centroasiatica, i russi intralceranno la strada ai turchi o viceversa. Non per forza sarà un impatto immediatamente traumatico. Magari non avrà neanche l’aspetto di un conflitto tradizionale. In parte dipenderà anche da altri attori, quelli del fronte orientale: la Cina e l’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (www.aseansec.org), legate dal 2003 da un partenariato strategico per la pace e la prosperità. Nell’Asean ci sono Indonesia e Malaysia, presenti anche nel D-8, dove membri come l’Iran e il Pakistan hanno lo status di osservatori nel Gruppo di Shangai, di cui protagoniste sono Russia e Cina. Entrambe, la seconda soprattutto, hanno al proprio interno fattori di vulnerabilità sui quale la Turchia, in alcuni casi apertamente, in altri per vie secondarie, fa pressione. Pechino, per dirne una, deve fare attenzione al Xinjiang o Türkistan orientale oppure Uyghuristan: il drappo nazionale, con la stella e la mezza luna su sfondo azzurro, si vede sventolare in varie occasioni nelle piazze di Turchia, la cui bandiera è identica, ma con lo sfondo rosso. Niente di serio, indice però di un chiaro sentimento. In quanto a Mosca ha tutto il Caucaso settentrionale a rischio: Daghestan, Adighezia, Kabardino-Balkaria, Karačaj-Circassia, Cecenia ecc. A proposito. In Anatolia è diffusa l’opinione che il Cremlino laggiù non combatteva i separatisti-terroristi, ma opprimeva con la forza i militanti di un movimento di liberazione nazionale, vicini per cultura e origini al popolo turco. Un pericolo c’è anche per Russia e Cina, è la sproporzione demografica. Da una parte un territorio immenso con circa 145 milioni di abitanti, dall’altra quasi un miliardo e mezzo di persone che ha bisogno di “spazio vitale”.
Tutte queste concatenazioni, saldate dall’appartenenza e dal ruolo ricoperto singolarmente in una o più imponenti strutture regionali economiche, politiche e militari, possono essere usate dall’interno, dai componenti di una delle organizzazioni sopra citate, come strumento di influenza in base alle caratteristiche stesse dell’organizzazione. Oppure dall’esterno, per creare una sorta di effetto domino, per cui, colpito un elemento, cadono gli altri. Si tratta di capire come muovere le leve per far funzionare l’ingranaggio o di trovare gli anelli deboli per spezzare la catena.