24 giugno 2013

 

Quando queste mie note saranno pubblicate, con ogni probabilità il Governo avrà rinviato di qualche mese la decisione relativa all’aumento o meno di un punto percentuale dell’iva. L’argomento non sarà più di stretta attualità e molte delle polemiche che lo hanno caratterizzato si saranno acquietate. Ritengo tuttavia ancora valida ed opportuna una riflessione sull’argomento che ha costituito uno dei cardini attorno al quale si è sviluppata la discussione politica ed una delle condizioni su cui si poteva e doveva basare il giudizio sulle capacità del Governo e addirittura sul suo destino.

Le varie associazioni dei commercianti e degli artigiani, alcune importanti componenti del quadro politico nazionale e, in maniera più attenuata i sindacati, hanno definito l’aumento di un punto percentuale dell’iva un disastro per l’economia nazionale.

L’iva (imposta sul valore aggiunto) è una imposta applicata sul valore aggiunto di ogni fase della produzione, di scambio di beni e servizi, ecc,.

In Italia l’imposta è pari al 21% con importanti eccezioni: 10% per alberghi, bar, ristoranti, attività turistiche in genere, recupero edilizio, ecc.; 4% per alimentari di prima necessità, libri, giornali, sementi, fertilizzanti ecc.

L’entrata per lo stato supera di poco i 100 miliardi di euro e l’aumento di un punto comporterebbe un incremento di circa quattro miliardi.

Da notare, e questo è molto importante, che l’imposta grava sul consumatore finale, mentre il professionista che fornisce la prestazione, o il commerciante venditore o l’artigiano, sono solo sostituti d’imposta che percepiscono e trasmettono allo stato le stessa, senza nessun costo.

Il pagamento dell’iva è basato su scontrini, ricevute fiscali e fatture.

Tenuto conto di quanto sopra, mi sono francamente meravigliato di tutto il chiasso fatto dalle varie associazioni intorno alla ipotesi di previsto aumento dell1%, aumento che tra l’altro non li tocca direttamente, ma che, in ogni caso, sarebbe pagato dal  cliente o consumatore finale.

Né si può pensare che l’aumento dell’1% sul costo finale per l’acquirente, possa indurlo a non comperare più l’oggetto: Faccio un paio d’esempi. Se un kilo di insalata costa oggi 3 euro, dopo l’applicazione del previsto, disastroso aumento costerà 3 euro e 3 centesimi. Se un abito costa oggi 600 euro, ne costerà 606. Ho pensato: nessuno si fermerà di fronte a tale “terribile” aumento. Dove è allora il problema? Mi sono rivolto alla direzione di una delle più prestigiose ed importanti associazioni, una di quelle che più blatera. Dal colloquio ho capito che quello di cui si preoccupano, non è la rinuncia dell’acquisto da parte del consumatore a causa dell’aumento di un punto, giacché anche gli esempi che ho portato dimostrano dello scarso significato dello stesso sul singolo prodotto; si preoccupano del fatto che: constatato che la capacità d’acquisto dei cittadini italiani rimarrà comunque invariata, una parte della stessa ( i quattro miliardi di previsto incasso da parte dello stato) non andranno più nelle tasche di commercianti e professionisti.

Ora, io dico: 4 miliardi ripartiti fra i più di sei milioni di partite iva non costituiscono, praticamente’ alcun danno, anche considerando la difficile situazione attuale. I quattro miliardi in più che lo stato incasserebbe, costituirebbe, invece, una somma importante e tale da consentire al governo di assumere iniziative a favore del lavoro. Nessun esercizio chiuderebbe a causa dell’aumento dell’uno per cento, mentre  molte iniziative di giovani senza lavoro, potrebbero essere adeguatamente sostenute.

Per quanto poi ha tratto con le conseguenze dell’aumento dell’1%, vorrei che commercianti e professionisti si mettessero la mano sulla coscienza e si chiedessero come mai, se tale aumento è tanto disastroso, con regolare, ripetuta frequenza, come tutti possono constatare e testimoniare, vengono apportati aumenti non dell’uno, ma del cinque, dieci percento ai generi in vendita o alle  prestazioni professionali, a danno del povero consumatore che non può difendersi. Altro che 1%!!

Altra considerazione, i quattro miliardi incassati dallo Stato, prima o poi, finiranno comunque nelle tasche dei titolari di partita iva, perché, in una sorta di partita di giro, costituiranno un aumento di capacità di spesa dei singoli che avvieranno un lavoro. E’ bene sempre ricordare che lo Stato distribuisce alla società nazionale nel suo complesso circa 720 miliardi di euro l’anno, più una quarantina  di miliardi di interessi ai proprietari italiani di bond e cct. Alla fine dell’anno allo stato non rimane nulla. Le sue spese, per buone o cattive che siano, salvo i contributi alle organizzazioni internazionali di cui fa parte, vanno tutte nelle tasche dei cittadini italiani, i quali comprano beni e servizi.

Infine, un rapporto della Guardia di Finanza, nel rendere pubblici i risultati della sua azione di contrasto all’evasione fiscale, comunica che ben un esercizio su tre non emette scontrino o fattura fiscale intascando in tal modo la somma che il cliente paga per lo stato e riducendosi, nel contempo, l’imponibile per l’irpef. Altro che l’1%. Se l’iva è del 21, un terzo è pari al 7% che  viene, in tal modo, rubato alla Stato ed alla società italiana.

In conclusione, non mi pare che l’aumento dell1% possa rappresentare quel disastro che si vuol preconizzare, mentre la somma percepita può costituire una leva assai utile per intervenire a favore di chi non ha lavoro.

Il Governo non si faccia condizionare. Aumenti senz’altro di un punto l’IVA e impieghi le somme reperite per assestare il bilancio e per sviluppare iniziative a favore dei disoccupati. Non saranno penalizzati né i consumatori, né i fornitori di derrate e di servizi.

Le Associazioni di professionisti, artigiani e commercianti, con vero senso dello Stato e rispetto del patto sociale, si impegnino ad estirpare dal loro interno la mala pianta dell’evasione e del furto dell’IVA pagata dal cittadino consumatore.

Proprio quel 66% di operatori onesti deve volere con tutte le forze l’eliminazione di quel 33% di disonesti che infangano le varie categorie nei confronti dell’opinione pubblica.

Gen. Luigi Ramponi

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