6 marzo 2014

 

L’atteggiamento del Presidente Karzai sta costringendo gli americani a mutare la programmazione dell’uscita dall’Afghanistan da parte delle proprie Forze armate.

A gennaio di quest’anno, il Pentagono aveva presentato alla Casa Bianca un piano che, al di là del ritiro progressivo di gran parte delle forze USA, prevedeva la permanenza di 10.000 uomini dopo il 2014. Tale permanenza ha lo scopo, da una parte di completare l’addestramento delle forze armate e di polizia afghane, fino a renderle autonomamente capaci di mantenere la sicurezza, e dall’altra di costituire una riserva strategica per interventi di emergenza a favore delle stesse. Una terza ragione, che induce gli americani a considerare necessaria la permanenza di loro forze è dettata dal desiderio di continuare a disporre di alcuni aeroporti (Kandahar nel sud e Jalalabad nell’est) essenziali per il controllo aereo di quell’area e l’impiego dei drones contro i talebani ed Al Quaeda insediati nella zona di confine con il Pakistan dove svolgono attività di addestramento e da dove partono per azioni terroristiche nel vicino Afghanistan, nel Pakistan ed a volte anche in altre parti del mondo. La durata della permanenza USA era prevista per gli anni 2015 e 2016, sino a concludersi con la fine della Presidenza Obama.

L’attuazione di tale piano, che era già stato definito in ogni dettaglio nella seconda metà del 2013 ed approvato in novembre dalla Loya Jirga, ovvero il Parlamento afghano, prevedeva il consenso finale da parte del presidente Karzai. Tuttavia, negli ultimi mesi, il presidente, in un quadro di inasprimento dei rapporti con gli Stati Uniti, ha chiaramente manifestato l’intenzione di non sottoscrivere alcun patto ma di passarne la responsabilità al proprio successore.

In linea di principio, l’atteggiamento del presidente afghano parrebbe legittimo e coerente, dal momento che egli sta per terminare il proprio mandato. Nella realtà, però, la sua ritrosia è dettata dal desiderio di manifestare ancora una volta il suo disaccordo con gli americani, anziché da quello di dimostrare coerenza e senso di responsabilità.

Obiettivamente, si deve prendere atto che l’inasprimento dei rapporti tra Karzai e gli USA è soprattutto dovuto alle iniziative che entrambe le parti hanno cercato di mettere in atto, ciascuna per proprio conto senza informare l’altra, attraverso contatti diretti, cercati e posti in atto, con i talebani. Entrambi si accusano l’un l’altro. In realtà, se colpa c’è, lo è in egual misura.

Da parte loro gli americani, preso atto di tale atteggiamento, hanno programmato due soluzioni.

La prima prevede il completo ed immediato abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe statunitensi entro l’anno 2014, abbandonando in tal modo al suo destino l’Afghanistan ed il Presidente Karzai, attribuendone la responsabilità alla maniera inaccettabile con la quale da qualche tempo sta trattando il Governo americano ed i grandi sacrifici da lui fatti per sostenere il Governo e la pace in Afghanistan.

La seconda, che prevede di spostare l’inizio delle operazioni di uscita dal Paese e la ricerca di un chiaro accordo per la permanenza dei diecimila uomini, così come in precedenza programmata, alla conclusione delle prossime elezioni ed alla nomina del nuovo presidente.

Al momento attuale, il presidente Obama sembra propendere per la seconda soluzione, la quale determinerà in ogni modo un ritardo nel ritiro dall’Afghanistan. Infatti, le operazioni di voto sono previste per il 5 aprile ma, dal momento che nessuno dei possibili candidati può prevedere un consenso superiore al 50% dei voti, è logico prevedere un secondo turno di consultazione. Questo rende possibile l’insediamento di un nuovo Governo in agosto/settembre.

La maggior parte dei candidati, si dichiarano, seppur in maniera non ufficiale nel timore di urtare Karzai, favorevoli ad una presenza americana. E questo può indurre il Governo USA ad abbandonare definitivamente ogni tentativo di persuasione nei confronti di Karzai e rinviare tutto al momento dell’insediamento del nuovo presidente, tenendo aperte entrambe le opzioni. Qualunque dovesse essere la scelta finale, tali avvenimenti ritarderanno certamente le operazioni e la conclusione non coinciderà con la fine del 2014.

Oltre che essere dettato da evidenti motivi di carattere politico, operativo, organizzativo, logistico e soprattutto economico, il desiderio americano di vedere consolidato il proprio piano di ritiro e di avviarne quanto prima l’attuazione, è dettato anche dalle conseguenze che ne derivano ai partners della NATO che, a loro volta, debbono pianificare, programmare, e approvare piani di spesa in funzione dello sviluppo delle operazioni di ritiro e delle entità delle eventuali permanenze dopo il 2014.

Il contingente italiano attualmente presente in Afghanistan è costituito da circa 2200 unità. Altre 95 sono assegnate ai vari distaccamenti di supporto presenti negli Emirati Arabi, in Baharein, in Quatar e negli Stati Uniti.

Le dichiarazioni fatte in Parlamento dal Ministro della Difesa lasciano intendere che, nel caso in cui gli Americani decidessero di ritirare tutti i 37.000 soldati attualmente presenti entro il 2014, senza prevedere alcuna permanenza per il 2015, anche l’Italia, nel contesto dell’alleanza NATO, non lascerà alcun soldato italiano.

Nel caso, invece, che venisse mantenuto il piano di permanenza per l’anno 2015 di un’entità di forze, per l’addestramento ed eventuale intervento di riserva strategica, notizie più o meno riservate, indicano che la presenza italiana potrebbe ammontare a circa 700 uomini.

Qualunque sia la decisione che verrà presa dal Governo, essa dovrà essere approvata dal Parlamento.

Gen. Luigi Ramponi

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